Generazione Greta: la partecipazione non si insegna a scuola

Si può insegnare la partecipazione? Se ne può fare una materia di scuola? Magari ripetendo a memoria gli articoli della Costituzione senza comprenderne il significato? Mi lasciano scettica le svariate proposte di educazione alla cittadinanza introdotte da altrettante riforme scolastiche. Non mi convince l’idea che si possa dedicare un’ora alla settimana, o qualche ora all’interno di ogni disciplina, con una valutazione finale, a questa materia impalpabile che è la partecipazione, dimensione che piuttosto permea l’intera giornata scolastica e non solo.

Si può fare educazione alla cittadinanza e alla partecipazione durante la mensa scolastica, riflettendo sugli sprechi e sulla qualità dei cibi, durante un’uscita didattica in quartiere, o ancora durante l’ora di Storia, magari partecipando a un incontro con testimoni della Storia di oggi e di ieri.

 

Negli ultimi anni il movimento Friday for future ci ha insegnato qualcosa di ancora diverso. Partecipare è una dimensione che va oltre la scuola e in qualche modo la precede. Attivarsi per salvare il Pianeta ha una dimensione di urgenza che giustifica l’interruzione stessa dell’esperienza scolastica. Greta, col suo sciopero settimanale da scuola prima individuale, poi collettivo e planetario, ci ha dato la lezione più forte e radicale su cosa significa avere l’urgenza di partecipare per cambiare le cose. “Siete rimasti senza scuse e noi siamo rimasti senza tempo”, è una delle frasi senza filtri che ha pronunciato davanti ai leader mondiali in merito alla crisi climatica.
Dietro a lei, un numero sempre crescente di giovani e giovanissimi sono scesi nelle piazze di tutto il mondo, con quel primo sciopero planetario per il Pianeta, avvenuto il 15 marzo 2019, e quelli che ne sono venuti a seguire. La crisi climatica, nei suoi aspetti ecologici, sociali e politici, è al centro di un movimento dal basso che ha mobilitato ragazzi dei paesi ricchi d’Europa, come dei paesi più poveri, dove gli effetti della crisi si stanno già facendo sentire in modo consistente.
Qui sta la forza di Greta, milioni di ragazzi sono scesi in piazza con debole motivazione ambientalista e attraverso la partecipazione ad un evento collettivo sono diventati ecologisti. Quanto moralismo sta negli adulti che credono che vi sia sempre un cursus honorum dell’impegno civile: mi informo, comprendo, scelgo, agisco. E infatti, non fanno nulla! Perché capire-senza-sentire, non cambia il nostro modo di vivere. I ragazzi sentono-senza capire, ma poco importa. Capiranno facendo.

Dobbiamo considerare la dimensione empatica, affettiva e emotiva della nostra vita. Greta non ha mosso milioni di ragazzi in tutto il mondo perché ha mostrato numeri o rivelato verità nascoste ma perché ha messo in campo la sua giovinezza, il suo corpo, la sua parola. Ha osato dire – con tutto il suo modo di essere – che l’ambiente è cosa troppo importante per essere lasciata ai soli ambientalisti, agli scienziati ed ai politici. È questione urgente e trasversale, che riguarda tutti.
Greta si rivolge ai ragazzi sapendo che le nuove generazioni sono già ambientaliste, per nascita. Non ascoltano parole, prediche o reprimende, imparano facendo, vivendo, apprendono per via empatica, copiando e replicando modelli. Il pensiero ecologico si attiva per via empatica, facendo sentire ai ragazzi che sono parte di movimento collettivo. Esattamente quella dimensione politica e collettiva, che è mancata negli ultimi anni.
Questa giovane generazione interpella direttamente il mondo della scuola. In quale modo può rispondere a questa nuova sollecitazione culturale? Come raccogliere un rinnovato impegno nei confronti della Terra e delle sue risorse?Non si tratta solamente di accogliere alcune delle istanze più strettamente scientifiche dentro i programmi scolastici, cosa di per sé necessaria e urgente, ma anche di capire, nel modo più profondo e responsabile, come la questione ambientale richieda approcci e stili didattici profondamente diversi dal passato.

 

Al nostro tempo serve un pensiero ecologico e popolare – che non è come molti pensano un pensiero sull’ambiente – ma è la forma del pensiero contemporaneo, un pensiero che sappia leggere le connessioni, i nessi causali, vedere le relazioni, come spiega Elena Granata in Biodivercity. Città aperte, creative e sostenibili che cambiano il mondo. Abbiamo bisogno di teste ben fatte, per dirla con Edgar Morin, teste che sappiano riconoscere che l’ambiente e la vita degli uomini sono intimamente connessi, e non possiamo dedicarci alle questioni ambientali senza considerare quelle legate alla povertà, alla giustizia, al lavoro, alla casa degli esseri umani. Quando parliamo di natura parliamo certamente di ambiente, di terra, di acqua, di biodiversità, ma natura è anche cultura, sedimento delle opere degli uomini. Per questo la scuola è fortemente chiamata in causa nel suo ruolo educativo e informativo.
Ma le nostre teste non sono affatto ben fatte e hanno sistemi di allarme e di comprensione con cui fare i conti. L’enormità e la drammaticità della crisi climatica non bastano, da sole, a convincerci e spingerci ad un drastico cambiamento di rotta.
Molti adulti – anche tra gli insegnanti – faticano a entrare in sintonia con quel popolo di ragazzini che riempie le piazze. Si appellano agli scienziati, come unici depositari del sapere sull’ambiente, trascurando la dimensione psicologica, l’economia dei comportamenti, le dinamiche collettive, che consentono agli scienziati di fare passare i loro messaggi e farli diventare azioni, progetti, politiche.
Se però guardiamo indietro ai decenni passati, dobbiamo ammettere la scarsa capacità del pensiero ecologico di diventare pensiero condiviso e agire praticato. È evidente che gran parte della spinta generosa e propulsiva dell’ecologismo europeo nel tempo si sia arenata, senza riuscire a diventare pensiero condiviso e diffuso.

 

Abbiamo bisogno di racconti più caldi, più vicini all’esperienza delle persone. Se la scienza ha guardato alla natura (alla Terra) da lontano, l’economia si è rapportata ad essa con distacco assoluto, considerandola mero supporto o fattore di produzione, da consumare e distruggere al servizio del profitto. Ma la terra non è solo strumento, fattore di produzione, piattaforma. Agisce e reagisce, cambia e si trasforma, a livello chimico, biochimico, geologico; reagisce all’uomo e alle sue azioni, talvolta si ribella con forza. Dobbiamo spostare il punto di osservazione; è una questione di empatia e di sentimento.

 

Non è difficile e ciascuno può farlo, soprattutto nelle aule scolastiche e soprattutto nei primi anni della formazione culturale. La nostra vita dipende dalla qualità dell’aria che respiro, dal cibo che mangio, dal fatto che sia sano e non troppo sofisticato, dipende dai vaccini disponibili in difesa della mia salute, dipende dai suoli, se sono sani o contaminati, dipende dalla varietà di specie animali, da quanto la città in cui vivo sappia rispondere ai cambiamenti ambientali, alle piogge più intese, alle estati più aride. E potremmo naturalmente allargare il cerchio delle cose che incidono sulla nostra vita, come il mare d’estate, la neve in montagna. La natura non è un’entità astratta, ha molti nomi legati al mio-nostro benessere. Trovare modi nuovi di raccontarla e di farla entrare nella narrazione quotidiana può accrescere la nostra narrazione ambientale.
Se ci si allontana anche solo un poco dalle cose viventi ci accorgiamo che molte di queste relazioni dipendono da valori collettivi immateriali, come i diritti, la scuola, la libertà di parola, l’eguaglianza tra le persone, il rispetto dell’altro, le regole condivise, le lingue e le culture e il mio elenco è destinato ad allungarsi. Senza poter più distinguere natura e cultura, l’io dal noi.