Imparare a partecipare. Non è mai troppo presto!
Quando si comincia a partecipare? Quando si è pronti per essere cittadini? La narrazione comune sulla cittadinanza, nel contesto italiano, parla spesso dei bambini come “futuri cittadini”. Nei discorsi pubblici, in particolare, si invoca l’esperienza dell’essere parte di una comunità come dimensione futura e non presente.
In realtà la Convenzione Onu per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (1989), ci propone un paradigma del tutto diverso, quello per cui il bambino è portatore di diritti fin dalla sua primissima infanzia. Il bambino è un cittadino, titolava Alfredo Carlo Moro di lì a poco, sottolineando come la conquista della libertà e i percorsi per realizzarla debbano prendere avvio molto presto.
La Convenzione Onu ha senza dubbio contribuito a rilanciare, anche in ambito pedagogico, la necessità di allestire ambienti educativi in grado di promuovere la agency dei bambini nei propri contesti di vita, scuola e famiglia in primis. Il bambino deve poter essere messo presto nelle condizioni di contribuire a costruire il proprio futuro, mettendo a frutto le proprie potenzialità trasformative. Per far questo, è necessario rivedere un’idea di infanzia, restituendo dignità ai bambini come soggetti attivi, competenti fin dai primi istanti di vita e sociali per propria stessa natura.
Se è necessario iniziare coi bambini più piccoli a costruire percorsi di partecipazione, la seconda questione in gioco è dove si possono apprendere questi percorsi? In quali contesti?
Il bambino in età prescolare frequenta prevalentemente due ambienti di vita: quello della sua famiglia e quello del nido e della scuola d’infanzia. È in questi due contesti che può cominciare a vivere l’esperienza della partecipazione, che ha come prima caratteristica l’essere inseriti in un contesto relazionale e sociale.
Una prima palestra, sempre meno disponibile per i bambini e le bambine in Italia, è quella della relazione tra pari all’interno delle famiglie. Fratelli più grandi e fratelli più piccoli, ma anche cugini, con qualche anno in più o in meno, coi quali sperimentare rapporti di responsabilità e condivisione, che sono alla base della vita sociale.
Sono a tal proposito molto interessanti le riflessioni di Barbara Rogoff nel suo libro La natura culturale dello sviluppo, considerato ormai un classico della psicologia culturale. Nel descrivere la profonda differenza di vissuto dei bambini della classe media americana (assimilabile in buona parte alla nostra cultura attuale) e i bambini di altri gruppi culturali, emerge come gli uni abbiano sporadiche occasioni di vita comune con fratelli e cugini, e un bambino piccolo possa essere affidato a un bambino più grande, non prima che questi abbia dieci anni. Presso famiglie messicane della classe operaia, invece, i bambini piccoli trascorrono buona parte della loro giornata con i fratelli maggiori, ai quali vengono affidati già dai cinque anni.
I fratelli maggiori rappresentano per questi bebè una delle fonti principali di apprendimento: una guida nella scelta di comportamenti appropriati, occasione di stimoli cognitivi e sociali, anticipando lo sviluppo di svariate abilità con tempi anticipati rispetto ai primogeniti. Questi bambini molto raramente giocano con le madri, preferiscono invece intrattenersi con bambini di diverse età, sperimentando in maniera più intensa le occasioni cooperative, che sono alla base dell’esperienza della partecipazione.
Non c’è dubbio che nella nostra società attuale di figli unici, la dimensione della partecipazione sia più difficile da sperimentare e implementare negli ambienti famigliari, dove spesso per un solo bambino vi è un gran numero di adulti, genitori, zii, nonni paterni e materni coi quali stabilire una relazione verticale. È sicuramente anche per questo motivo che è preziosa una seconda palestra per piccoli cittadini, quella dei servizi per l’infanzia: nidi e scuole dell’infanzia, che nel nostro Paese ha una forte tradizione pedagogica e di riflessione profonda sulla vita comunitaria e l’educazione alla partecipazione. La partecipazione è una capacità che va coltivata fin da piccoli, basata su un percorso di apprendimento. Nei servizi educativi per la prima infanzia tutti i bambini e le bambine possono apprendere un atteggiamento sociale partecipativo.
Le Sorelle Agazzi, all’interno delle loro “scuole materne”, davano molto rilievo alle attività quotidiane di collaborazione tra bambini più grandi e bambini più piccoli. Nel loro metodo è importante alimentare il sentimento della fratellanza e dell’aiuto reciproco tra i bambini. In particolare, ogni bambino “grande” della classe era invitato a scegliere, seguendo l’impulso dell’affettività e della simpatia, un bambino più piccolo che diventava il suo “pupillo”.
Se questa dimensione della vita collettiva in classe è fondamentale, non meno importante è quella che porta nelle nostre attuali scuole comunali i bambini alla scoperta del proprio quartiere: il retro della pasticceria, per vedere come vengono preparati i dolci prima di essere esposti in negozio, il bar senza slot machine dove osservare come funziona la gestione economica e per qualche bambino prendere posto in cassa per qualche istante e sperimentare cosa significa gestire i soldi, gli uffici delle poste, dove consegnare una lettera da spedirsi a casa per verificare in prima persona come funziona la consegna di pacchi e missive. E ancora, per i più grandi, la visita alla caserma dei pompieri, con tanto di simulazione di un intervento anti incendio e salita sulla scala del camion dei pompieri per vedere l’effetto che fa. Questo contatto col reale, coi mestieri, coi luoghi del commercio e coi servizi, è un’educazione al lavoro e alla partecipazione di vitale importanza, che di rado viene proposta ai bambini nei cicli scolastici successivi.
I bambini, anche quelli che hanno varcato ormai la soglia dei sei anni, non hanno bisogno di simulazioni o di giornate dedicate alla celebrazione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ma hanno bisogno di occasioni autentiche di partecipazione, sempre più coinvolgenti ed efficaci, anche in relazione alle diverse età. Questo richiede, come dichiara L’Unicef (2003), un mutamento radicale di prospettiva: “da una realtà definita esclusivamente dagli adulti ad una in cui i bambini e i ragazzi possano contribuire a costruire il mondo in cui desiderano vivere”. Oggi, e non domani.
Anna Granata
Professoressa associata di Pedagogia presso il Dipartimento di Scienze umane per la formazione “Riccardo Massa” dell’Università di Milano-Bicocca. È autrice di libri, saggi e articoli su riviste scientifiche e divulgative attorno ai temi della mixité come risorsa educativa e formativa.
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