Ministero dell’Istruzione e del Merito… O del Privilegio?

Il Ministero dell’Istruzione cambia nome e non è un caso. In maniera roboante entra nella denominazione ufficiale il concetto di merito: non si tratta di una parola in più, ma di marcare un cambio di direzione che rischia di minacciare il progetto democratico a cui la scuola è chiamata a dare un contributo determinante.

Già qui e qui abbiamo spiegato quanto le condizioni economiche e socioculturali di partenza rendano iniqua l’esperienza formativa degli studenti, con la scuola che diventa vettore di disuguaglianza per com’è organizzata. Ora la retorica del merito rischia di acuire queste dinamiche, perché l’attenzione è puntata sui risultati ottenuti e non sui percorsi, sugli sforzi e sulle energie che bambine e bambini, ragazze e ragazzi investono nell’apprendimento.

Non tutti possono contare sul supporto della famiglia, su visite a musei e mostre, su serate al cinema e gite nel fine settimana. Non tutte le case hanno una grande libreria in salotto grazie a cui scoprire già da piccole e piccoli parole e storie.

Se il merito è la combinazione tra impegno e talento, non è detto che tutte le bambine e tutti i bambini entrino a scuola avendo speso il loro tempo sviluppando quelle capacità e quelle competenze richieste per avere successo nei compiti scolastici.

Applicando al contesto scolastico la logica del merito, chi è ricco diventa sempre più ricco, chi è povero sempre più povero. Se l’idea è quella di valorizzare e premiare chi dimostra i propri meriti, il rischio è quello di valorizzare e premiare i privilegi.

Un ospedale che cura i sani e respinge i malati

Era con questa immagine forte e densa che don Lorenzo Milani negli anni Sessanta denunciava una scuola incapace di dare alle ragazze e ai ragazzi provenienti da contesti svantaggiati una seria e concreta possibilità di riscatto sociale e culturale.

Era una scuola basata sul merito. O, meglio, una scuola che trasformava il privilegio in merito.

La sua denuncia è stata cruciale nel segnare una svolta della nostra scuola pubblica, che negli anni successivi è stata al centro di riforme che ne hanno aumentato la democraticità: pensiamo all’ingresso degli alunni con disabilità nelle classi comuni, al tempo pieno, alla possibilità per tutti i diplomati (e non solo quelli dei licei) di accedere all’università…

Non rischiamo di perdere tutto: proprio ora, in un momento storico in cui crescono le disuguaglianze e la scuola dovrebbe essere vettore di equità e ascensore sociale, non possiamo cedere alla tentazione del merito.

Non possiamo pensare che il ruolo della scuola sia premiare chi già era bravo e nel corso degli anni diventa più bravo e punire chi, partendo da una posizione di svantaggio, si trova in difficoltà già dal primo giorno in cui fa ingresso a scuola.

Non possiamo volere una scuola che non riconosca il peso del retroterra socioeconomico e socioculturale di studentesse e studenti, che aggravi le disuguaglianze e non faccia nulla per arginarle.

La scuola è aperta a tutti

L’articolo 34 non lascia margini di dubbio… E non solo nel suo primo comma! Leggendo le righe che lo compongono, appare evidente quanto debba saper accogliere chiunque e valorizzare le potenzialità di ognuno. La scuola non è il luogo della competizione, ma il laboratorio in cui si è sostenuti nella scoperta di sé e nella costruzione libera della propria identità, che non è subordinata al retroterra socioeconomico e socioculturale.

La scuola non deve rispondere alle leggi del mercato, ma essere strumento di democrazia: deve allargare le possibilità di tutte e tutti, accrescere le capacità di ognuno e agire all’insegna di un progetto di emancipazione umana, sociale e culturale.

La logica del merito porta invece a scuola i meccanismi concorrenziali del mercato, la necessità di efficienza a tutti i costi, la gara tra chi sta imparando: è una situazione loss-loss, perché ne escono sconfitti tutti, sia chi parte avvantaggiato e vive il proprio percorso scolastico concentrato a fare meglio degli altri, senza sviluppare empatia e capire il valore di un sapere costruito insieme, sia chi avrebbe bisogno di più tempo per acquisire capacità e conoscenze ed è ogni giorno più demoralizzato e spento.

I nomi danno forma alle cose

È questa la grande lezione di Jerome Bruner e Zygmunt Bauman (ma non solo). Così abbiamo il dovere di chiederci perché il Ministero dell’Istruzione e del Merito non sia potuto essere, ad esempio, il “Ministero della Scuola Democratica”.

Non possiamo guardare silenti alla decostruzione ora lessicale e semantica, poi chissà, della scuola come strumento di inclusione, equità, democrazia. Un po’ come non possiamo non chiederci perché il Ministero della Disabilità non sia potuto diventare il Ministero per l’inclusione, già dalla scorsa legislatura: in ambedue i casi, si tratta di non guardare al futuro e a ciò che la persona è e può essere.

Come insegnanti, pedagogiste, pedagogisti, educatori, educatrici, operatori e operatrici dell’educazione abbiamo il dovere di sottolineare che le parole hanno un peso, che i cambiamenti lessicali e semantici non siano mai un caso e che aderire alla logica del merito significa spezzare quella tensione al futuro fatto di giustizia sociale che la scuola dovrebbe costruire.

In concreto, significa rendere accettabili le disuguaglianze poiché si certificano i meritevoli attraverso una mera comparazione dei risultati ottenuti In realtà ciò che si certifica è il privilegio di partenza, leggendo con la lente dello scarso studio, dell’insufficiente impegno e della poca predisposizione risultati inferiori ad aspettative uguali per tutti che non considerano le specificità di ognuno.

La vera questione è capire se oggi Giovanni ha fatto meno errori di ieri e ha imparato qualcosa in più, non se Giovanni ha fatto meno errori di Federica, Marta e Matteo. Allora facciamo uno sforzo e, nonostante il nome del ministero, continuiamo a vedere la nostra scuola come democratica, strumento di mobilità sociale e asset strategico per la giustizia sociale.