La mia maestra non sa che c’è la guerra!
“Chi ti ha parlato della guerra, la maestra?” Chiede una mamma a suo figlio.
“No, ne ho parlato coi miei compagni, la maestra non sa che c’è la guerra!”
Sono queste le parole di un bambino di cinque anni, giovedì 24 febbraio all’uscita dalla scuola dell’infanzia. Parole che hanno dato il titolo a questa lezione aperta.
Non è facile essere insegnanti nel 2022. Non è stato facile durante la pandemia, la didattica a distanza, il rientro in classe con mascherine e distanziamento, la condivisione del dolore e dei lutti che hanno colpito molte famiglie (1 nonno per ogni classe d’Italia, in media). Non è facile esserlo oggi durante la prima guerra “vicina” ai tempi dei Social media.
Mai come in questo tempo gli insegnanti sono chiamati a una forte responsabilità nei confronti dei propri alunni. È questa la parola su cui vorrei ragionare oggi con voi oggi, avendo in mente il significato originario di questa parola: la capacità di dare risposte alle domande che i bambini pongono di fronte ai grandi fatti dell’esistenza.
Scegliere di tacere del tutto rispetto al tema o scegliere di delegare ad altri, “esperti” o strumenti, la gestione del tema sono entrambi modi di abdicare alle proprie responsabilità educative.
Avere il “termometro” della situazione
È estremamente delicato parlare di temi sensibili, in un’età sensibile e delicata come l’infanzia. La guerra col suo carico di sofferenza, ingiustizia, insensatezza, è un argomento scomodo, difficile, ma possiamo pensare di fare finta che non esista o pensare – con la pressione mediatica a cui sono quotidianamente esposti anche i bambini più piccoli – che essa rimanga del tutto estranea alle vite dei bambini nelle nostre scuole?
Credo che questo tema interpelli la nostra stessa idea di scuola. Luogo di trasmissione dei saperi e di adesione passiva da parte dei bambini alle consegne degli insegnanti (dove, frasi che non invento ma cito “troppe domande creano confusione in classe!”), oppure spazio di dialogo e confronto, dove i bambini possono avere, fin da primi anni di vita, voce e possibilità di interazione tra pari e con gli insegnanti?
Marco Orsini, dirigente scolastico e ideatore del metodo “scuole senza zaino” diffuso in tutta Italia, ha creato un’agorà all’interno della classe di scuola primaria: uno spazio dedicato dove si radunano insegnanti e bambini, prima di iniziare le attività della giornata. In quello spazio, gli insegnanti pongono una domanda, anche semplice: cosa avete fatto ieri pomeriggio? Come vi sentite oggi? Il dialogo coi bambini, nel momento più ricettivo della giornata scolastica, fornirà lo spunto per le tematiche affrontate in seguito, con ampi margini di flessibilità da parti di insegnanti non ancorati rigidamente al programma.
Se le regole del distanziamento Covid hanno precluso la possibilità di far sedere i bambini vicini in questo spazio dedicato, gli insegnanti hanno trasformato questo “spazio” come momento iniziale della giornata, senza perderne il significato più profondo: la lezione deve partire sempre dal bambino, dai suoi pensieri, dalle sue domande.
Conservare e custodire uno spazio della domanda nella giornata scolastica è una prima pratica da mettere in atto se ci si vuole sincronizzare coi bambini, con le loro conoscenze ed emozioni, con le informazioni che hanno ricevuto e le domande che sono nate in loro, in giorni difficili e tormentati, con la guerra a un passo da noi.
Solo in questo modo è possibile evitare il rischio di anticipare temi che non interpellano i bambini, avvicinarli a questioni troppo grandi per la loro capacità di comprensione o, al contrario, rifuggire dal presente e dal contesto nel quale siamo immersi, noi, loro, le loro famiglie.
Custodire uno spazio della domanda, piuttosto che improvvisarlo in maniera artificiosa, significa darsi la possibilità di avere sempre il “termometro” della classe, e agire di conseguenza.
Evitare il rischio di delegare
È forte – e forse umana – la tentazione di delegare ad altri o a strumenti dedicati la gestione di temi sensibili e delicati in classe. L’educazione all’affettività affidata, in toto, a uno psicologo mai incontrato prima dai bambini. Lo spot sul bullismo proiettato sulla LIM per introdurre il tema coi ragazzi agli ultimi anni della primaria. Il cartone sulla Shoah per il giorno della memoria, proposto a bambini di ogni età, senza alcuna presentazione e introduzione, ancor prima di aver affrontato in classe quella sconvolgente pagina di Storia.
La scuola “al tempo del digitale” (Rivoltella), offre numerosissime risorse e possibilità, ma ciò non significa che l’insegnante possa delegare ad esse la gestione di temi sensibili.
Gli strumenti possono essere più o meno adatti a ciascuna età ma la questione di fondo è un’altra: è l’insegnante l’unico vero mediatore rispetto ai grandi temi dell’esistenza, capace di consegnare i temi più delicati con le parole più opportune per quell’età e per quella classe, con il linguaggio del corpo, l’uso della voce, interpellando quei volti e adattando la narrazione alla loro capacità di comprensione. È l’insegnante a conoscere la storia di ogni suo alunno, le esperienze pregresse, i vissuti del passato e quelli attuali. È l’insegnante che ha accolto o accoglie oggi in classe bambini con un vissuto personale legato alla guerra, ricordi ancora vivi, angosce e turbamenti.
Daniele Novara, nei primissimi giorni della guerra, ha invitato con parole opportune e pertinenti gli insegnanti a proteggere e rassicurare i bambini, prestando molta attenzione alle diverse fasi evolutive del bambino, che a sei/sette anni non può comprendere cosa significa “una guerra a 30.000 km da noi” ma a otto/nove è pronto per riflessioni più profonde.
La pedagogia interculturale ci insegna che i bambini hanno storie, esperienze famigliari, vissuti e sensibilità molto diversificati, a livello individuale, famigliare, di estrazione sociale e culturale. Nelle nostre classi ci sono bambini che hanno vissuto la guerra in prima persona, in Siria, in …. Per i quali toccare il tema può avere risvolti particolarmente delicati e dolorosi. Ci sono bambini che trascorrono pomeriggi e serate davanti a una televisione accesa o intrattenuti da uno smartphone, senza la mediazione di un adulto, esposti alle immagini di guerra che popolano costantemente i nostri media. Ci sono bambini protetti da qualsiasi notizia e narrazione.
L’eterogeneità della classe – di cui conosciamo molto bene il valore, ancor più in un corso di Pedagogia interculturale – si esprime anche in questo caso specifico ad un tempo come sfida e come risorsa. È l’insegnante il grande mediatore all’interno della sua classe.
Solo la parola, la narrazione, mediata dal proprio insegnante, in collaborazione anche con altri attori, può arrivare a tutti, senza infliggere ulteriore angoscia, né liquidare questioni importanti e domande latenti.
Coltivare un’emotività intelligente
Uno degli aspetti più delicati della situazione che stiamo vivendo, come mondo adulto, è il forte senso di impotenza rispetto a quanto accade. È un sentimento reale, profondo. Ci colpisce come genitori di bambini piccoli, e in parte poco consapevoli della situazione, e di ragazzi più grandi, informati, coinvolti, a tratti turbati. Ci colpisce come docenti e come insegnanti, responsabili di fronte ai nostri alunni, ai nostri studenti.
Esercitare la nostra responsabilità di mondo adulto è fondamentale in questa contingenza. Ma questo è possibile soltanto se evitiamo l’indifferenza e riusciamo a coltivare in noi uno spazio di riflessione, di approfondimento rispetto alla situazione internazionale, di coinvolgimento rispetto alla situazione di chi è colpito dalla guerra o arriva da noi ma non di emotività fuori controllo.
“In questa guerra che ci sembra più grave delle altre solo perché è vicina, noi che proviamo a raccontarla – scrive l’inviata italiana in Ucraina Francesca Mannocchi – dobbiamo essere doppiamente bravi a liberarla dal magazzino degli orrori e dalle incrostazioni dell’emotività”. Lei è lì a raccontarci questa guerra, noi siamo qui, coinvolti ma con la giusta distanza emotiva. È questa emotività intelligente che dobbiamo coltivare in noi, per offrire ai nostri alunni e ai bambini ucraini che arrivano nelle nostre classi uno spazio sicuro di riflessione e di pace.
Da sempre gli “ultimi arrivati” nella nostra scuola hanno ricordato il senso della nostra scuola: luogo di trasmissione e costruzione della conoscenza, luogo di scambio e di crescita, luogo di cittadinanza e di pace.
Anna Granata
Professoressa associata di Pedagogia presso il Dipartimento di Scienze umane per la formazione “Riccardo Massa” dell’Università di Milano-Bicocca. È autrice di libri, saggi e articoli su riviste scientifiche e divulgative attorno ai temi della mixité come risorsa educativa e formativa.
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