Momcession: davvero nel 2022 dobbiamo ancora scegliere tra figli e lavoro?
Mercoledì 22 giugno il Consiglio dei Ministri ha approvato la direttiva (UE) 2019/1158 sull’equilibrio tra l’attività professionale e la vita familiare di genitori e care givers. L’obiettivo generale della direttiva è di garantire l’attuazione del principio della parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro e il trattamento sul lavoro, introducendo misure di work-life balance per genitori e persone con responsabilità di assistenza.
Le novità principali per il nostro Paese riguardano in particolare:
- Il congedo obbligatorio e indennizzato al 100% per i padri, che con il nuovo decreto potrà essere fruibile, come il congedo di maternità, liberamente in tutto l’arco temporale che va dai 2 mesi precedenti ai 5 successivi al parto
- La durata complessiva del diritto al congedo facoltativo per il genitore solo, che passa da 10 a 11 mesi, ai fini di un maggiore sostegno ai nuclei familiari monoparentali
- La durata dei congedi parentali in presenza di due genitori che passa da 6 a 9 mesi in totale
Secondo la direttiva, tali misure saranno utili ad aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e far crescere il numero di uomini che si avvalgono di congedi per motivi familiari e di modalità di lavoro flessibili, ma è bene ricordare che nel nostro Paese siamo ancora molto lontani da una reale condivisione di responsabilità in merito al carico di “cura” famigliare, fortemente centrato e sbilanciato sulle spalle delle donne.
Recession e “momcession” post covid
Il 7° rapporto di Save the Children con i dati relativi al 2022 riguardanti la situazione della maternità nel nostro Paese è tutt’altro che incoraggiante (savethechildren.it/le-equilibriste-la-maternita-in-italia-2022) e gli effetti negativi della pandemia hanno reso ancor più difficile una situazione già poco equilibrata in partenza. Le conseguenze della recessione causata dal Covid hanno colpito soprattutto il versante femminile della popolazione, tanto da etichettarla come “shecession” e “momcession” a causa degli impatti economici sproporzionatamente negativi per le donne e per le madri, che durante la pandemia si sono fatte maggior carico del lavoro di cura nei periodi di chiusura delle scuole e delle strutture per l’infanzia.
Il mito del sacrificio materno e il mito del lavoro per gli uomini
Rimane, inoltre, radicato, nella cultura italiana più che in altre, un modello ideale di madre, permeato dal mito del sacrifico. Proprio la retorica del sacrificio della madre prospera in Italia più che altrove, sicuramente anche a causa di un’influenza importante di matrice cattolica e di ideale di madre irraggiungibile e perfetta. Dal «parto con dolore» alla «madre coraggio», la narrazione attorno alla figura della madre è piena di esempi di questo tipo, come viene messo bene in luce nel libro di Alessandra Andreoli “Lo faccio per me” (Rizzoli 2022). Al contrario, il tema culturale della maternità, e della genitorialità, andrebbe declinato al plurale, senza ricadere in visioni riduttive, statiche, mitiche, idealizzate e disgiuntive dell’identità genitoriale e di quella personale, che è invece complessa e in continua evoluzione.
Inoltre, se da una parte rimane il mito della madre idealizzata e perfetta, persiste, in maniera complementare sugli uomini, il mito del lavoro. Scegliere di usufruire del congedo parentale, essere lavoratori part-time, dedicarsi alla cura dei figli è spesso considerato culturalmente uno stigma (al pari del non avere figli per le donne) ed è oggetto di demansionamento, mobbing, pressioni psicologiche. Oggi quasi il 40% delle famiglie italiane è ancora impostato sul tipico modello tradizionale che prevede l’uomo come responsabile (spesso unico) del reddito e la donna dedicata alla cura, tema approfondito in un’analisi ampia e ricca di dati nel nuovo libro di Alessandra Minello “Non è un paese per madri” (Laterza, 2022), che mette in luce come la gestione dei ruoli di cura sia ancora un argomento irrisolto nel nostro Paese.
Secondo i dati diffusi dall’Istat, nel 2021, su un totale di 22,5 milioni di occupati totali, quelli a tempo ridotto erano il 18,6%, ma, considerando la disaggregazione per genere, a lavorare in regime di tempo parziale è meno di un uomo su dieci a fronte di circa una donna su tre. Questo ha risvolti negativi sul lungo periodo per le donne, perché beneficiano di un minore introito economico (penalizzando la loro posizione anche nel sistema pensionistico), sia perché rischiano di essere impiegate in mansioni di minor profilo e di avere meno opportunità formazione.
L’istruzione premia?
L’identikit dell’individuo che ha la probabilità più alta di essere assunto e promosso è ancora oggi il seguente: uomo, eterosessuale, giovane, senza figli o carichi familiari e in perfette condizioni fisiche. E un dato ancora più preoccupante riguarda le chance occupazionali dopo il conseguimento della laurea: sebbene le donne da tempo costituiscono oltre la metà dei laureati in Italia e, in media, hanno curricula più brillanti rispetto a quelli maschili, con migliori performance negli studi e più ricchi di esperienze formative rilevanti, secondo i dati del Consorzio interuniversitario Almalaurea, a 5 anni dalla laurea, le laureate presentano un tasso di occupazione inferiore a quello maschile e gli uomini guadagnano, in media, circa il 20% in più. Le donne, inoltre, lavorano in misura relativamente maggiore con contratti non standard, come quelli a termine.
Maternità e paternità: declinare al plurale
L’immaginario comune è ancora ancorato all’idea che esista una predisposizione “naturale” delle donne ai ruoli di cura: questo influenza anche la divisione del carico di cura e ha ripercussioni profonde sull’organizzazione del lavoro e sulla decisione di avere figli o meno per non dover scegliere tra carriera e famiglia (Minello, 2022). Dunque, sebbene interventi normativi come la direttiva siano necessari per andare nella direzione di una maggiore parità, rimane urgente la necessità di coltivare una riflessione culturale “plurale” e “comprensiva” sul tema della maternità e della paternità, scardinando stereotipi e idealizzazioni, per comprende insieme (uomini e donne, padri e madri, ma non solo) come ridisegnare la strada, riflettendo sulle possibili direzioni del cambiamento.
Chiara Galbersanini
È dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche presso l’Università degli studi di Milano e docente presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, Economia e Management, dell’Istituto Universitario Sophia. Si occupa di politiche europee e conciliazione famiglia-lavoro.
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