Nuovi cittadini: per somiglianza o desiderio di partecipazione?
La ricerca sociale si è fortemente concentrata in questi anni sul tema della cittadinanza multiculturale e sui percorsi di crescita delle seconde generazioni. Studi in sociologia in primis, ma anche nelle scienze politiche, dell’educazione, in psicologia, antropologia culturale, demografia, financo nell’ambito del marketing, hanno contribuito ad esplorare la particolare condizione dei minori di origine straniera, analizzando da prospettive diverse tematiche quali socialità, integrazione, partecipazione, scolarità, religiosità, etc. (cfr., tra gli altri, Ambrosini, Molina, 2004; Cologna et al., 2003; Colombo, Romaneschi, Marchetti, 2009; Besozzi, Colombo, Santagati, 2009; Dalla Zuanna, Farina, Strozza 2009; Frisina, 2007; Queirolo Palmas, 2006; Ricucci, 2010; Visconti, Napolitano, 2009).
Se la stragrande maggioranza di queste ricerche si è concentrata specificatamente sulla condizione delle seconde generazioni, identificando talvolta determinati gruppi etnici, alcuni lavori hanno intrecciato i percorsi dei giovani autoctoni con quelli dei coetanei di origine straniera, facendo emergere tratti propriamente generazionali, legati agli stili di vita, alle mode, agli interessi musicali e culturali condivisi da figli di italiani e figli di stranieri (cfr., tra gli altri, Colombo, 2010; Granata, 2015).
Al di là delle tesi specifiche entro ambiti disciplinari diversi, emerge come la ricerca sociale su questi temi abbia espresso in maniera quasi unanime un punto di vista comune sulla riforma della cittadinanza, cornice fondamentale per pensare i percorsi di vita di questi giovani, facendo emergere una forte dimensione di public engagement della ricerca sociale. Le ricadute di queste ricerche richiamavano infatti direttamente una riforma in ambito giuridico, ma anche – come è tipico delle scienze sociali – a livello di immaginari collettivi: bambini e ragazzi nati e cresciuti in Italia non possono essere considerati stranieri.
Credo sia doveroso, anche se scomodo, guardare vent’anni dopo a questo dibattito con un atteggiamento di “critica interna”, alla Walzer (2004), facendo emergere i limiti di una narrazione che nel migliore dei casi non ha contribuito al miglioramento del clima culturale e nel peggiore ha contribuito a deteriorare.
La ricerca sociale è chiaramente esposta più di altri ambiti di studio a dinamiche di questo tipo, spesso inconsapevoli e tuttavia da osservare con grande attenzione e onestà intellettuale.
Mentre studiosi e ricercatori si adoperavano nell’elaborazione di progetti di ricerca, con metodi sempre più innovativi e partecipati, dando voce direttamente ai giovani rappresentanti delle associazioni delle seconde generazioni nate e fiorite fin dai primi anni 2000 (Cologna et al., 2209; Frisina, 2011), in Parlamento venivano depositate numerose proposte di riforma della cittadinanza. In particolare, nel 2015 la Camera ha approvato un testo unificato di 25 proposte di legge presentate in questi anni da esponenti di diversi schieramenti politici.
È di particolare importanza notare come il testo, che non è mai stato approvato in Senato, non prevedesse una riforma complessiva dello statuto della cittadinanza in Italia ma si concentrasse esclusivamente sulla questione dell’acquisto della cittadinanza da parte dei minori. In particolare, le novità di questa proposta riguardavano la possibilità di acquisto della cittadinanza per nascita (il cosiddetto ius soli temperato), per i bambini i cui genitori abbiano un permesso di soggiorno regolare da almeno cinque anni, e l’introduzione della cittadinanza in seguito al compimento di almeno un ciclo scolastico in Italia (il cosiddetto ius culturae). Quest’ultimo aspetto si connotava come particolarmente adatto al contesto del nostro Paese dove la scuola costituisce il principale luogo deputato all’integrazione e l’istruzione per tutti rappresenta uno dei capisaldi del nostro stesso patto sociale.
Esclusi da questa riforma sarebbero i migranti cosiddetti di prima generazione che costituiscono a livello famigliare i genitori di quegli stessi bambini e ragazzi per i quali si chiede la cittadinanza, mentre a livello sociale sono comprese tutta una serie di figure fondamentali per la tenuta della nostra società quali imprenditori, operai, colf, assistenti di cura, ristoratori, atleti, sanitari e l’elenco potrebbe continuare molto a lungo.
Abbiamo separato i destini dei figli da quelli dei padri, i percorsi dei nati in Italia da quelli dei nuovi arrivati. Lo abbiamo fatto per chiarezza espositiva e attitudine alla classificazione delle nostre discipline. Lo abbiamo fatto – talvolta inconsapevolmente – perché il tema della cittadinanza ai piccoli ci pareva più semplice e appetibile rispetto a quello più controverso della cittadinanza agli adulti, migranti, profughi, rifugiati. Volevamo, in fondo, inconsapevolmente far leva su emozioni “facili”: la tenerezza, la compassione, possibili antidoti alla paura dello straniero, emozione da sempre esistita nelle nostre società e oggi largamente diffusa nel nostro Paese, anche a livello di retorica politica.
Chi scrive, in particolare col libro “Sono qui da una vita. Dialogo aperto con le seconde generazioni” (2011), esprimeva la medesima tesi: questa generazione scopre, con stupore, di essere straniera nella stessa terra in cui è nata e cresciuta, con le relative conseguenze sui percorsi di crescita.
L’effetto è stato contrario rispetto alle intenzioni. I piccoli sono rimasti stranieri, assoggettati alla condizione dei padri, se non dei nonni migranti. I grandi sono rimasti “stranieri per sempre”, secondo l’espressione di Abdullahi Ahmed (2020). Questo errore di valutazione mi si è reso evidente proprio confrontandomi con la storia e con le idee di questo diciottenne somalo sbarcato a Lampedusa nel 2008. Rappresentante inconsapevole della Teen Immigration (Granata, Granata 2019), ragazzi minorenni o appena maggiorenni giunti nel nostro Paese, con una storia ben diversa dalle seconde generazioni, eppure con eguale se non maggiore desiderio di diventare parte di questa comunità. Oggi dopo lunghe trafile burocratiche cittadino italiano, fondatore di Generazione Ponte a Torino e ideatore del Festival dell’Europa solidale e del Mediterraneo, è stato insignito pochi mesi fa del Premio della Commissione europea “Altiero Spinelli”, per la promozione della cittadinanza europea. Per Abdullahi Ahmed cittadino “è chi fa qualcosa di concreto per la sua comunità, con l’obiettivo di renderla un posto migliore e più gentile per tutti” (Ahmed, 2020, p. 31). Non è un dato biologico o identitario a farci cittadini. Non è un’eredità famigliare o di sangue a tenerci legati a questa terra. Non è nemmeno un’esteriore assimilazione a uno stile di vita cosiddetto autoctono. La cittadinanza è un progetto, una tensione, una prospettiva condivisa con tutti coloro che in questo Paese riescono ancora a immaginare un futuro.
Anna Granata
Professoressa associata di Pedagogia presso il Dipartimento di Scienze umane per la formazione “Riccardo Massa” dell’Università di Milano-Bicocca. È autrice di libri, saggi e articoli su riviste scientifiche e divulgative attorno ai temi della mixité come risorsa educativa e formativa.
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