Tempo pieno… di che?
Le rivendicazioni sociali del Sessantotto ebbero negli anni Settanta riverberi educativi importanti. Il tempo pieno è forse l’esempio più emblematico: nato a Torino su iniziativa volontaria di alcuni insegnanti, venne istituzionalizzato nel 1971 con un’apposita legge.
La vivacità pedagogica di quegli anni si tradusse in una proposta educativa originale e decisamente all’avanguardia, nel solco dell’attivismo pedagogico. La centralità del bambino viene resa operativa attraverso l’attenzione alla socializzazione, alla ricostruzione del curricolo, alla creatività, al pensiero divergente, alla musica, al gioco, all’arte, all’educazione fisica. Un altro aspetto cardine della nuova temporalità scolastica era il legame con il territorio, nel tentativo di garantire ai ragazzi esperienze di apprendimento significative.
Perché aumentare il tempo passato a scuola?
Passare più tempo a scuola significa agire all’insegna dell’equità e della giustizia sociale: era questo il pensiero che spinse pedagogisti e maestre a sostenere la realizzazione di una scuola non limitata a quattro ore mattutine ma che abbracciasse l’intera giornata.
L’idea di fondo è che il tempo pieno non è un prolungamento di orario, ma un profondo rinnovamento della pratica educativa, con il superamento dei modelli trasmissivi, un rinnovamento delle strutture con l’aula che diviene un laboratorio, un raccordo con il territorio con esperienze di apprendimento anche fuori dalla classe.
Queste parole risuonano tuttora attuali: Il tempo pieno era di certo un sostegno all’organizzazione famigliare, ma nel rispondere ai mutamenti del tessuto sociale doveva portare a un profondo ripensamento dei modi di far scuola.
Una soluzione all’insegna della mixité!
Non c’era margine di dubbio, negli anni Settanta: la risposta alle nuove emergenze sociali doveva essere educativa. Non ci si poteva rivolgere solo a quegli alunni che apparivano più in difficoltà, perché non si sarebbe fatto altro che istituzionalizzare disuguaglianze già presenti.
La parola chiave è dunque mixité: il tempo pieno non è una soluzione per i soli alunni fragili, ma un modello di scuola ideale per tutti. Bambini proveniente da contesti più diversi possono incontrarsi e costruire relazioni significative, imparando gli uni dagli altri qualcosa che ancora non conoscono e comprendendo il valore di un apprendimento costruito insieme a partire da esperienze e modi di fare differenti.
E in pratica?
Questa idea di tempo pieno ha da subito fatto fatica ad affermarsi, con insegnanti in difficoltà a cambiare il proprio modo di lavorare e investimenti da parte dello Stato non sufficienti per estendere il modello in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale.
Nel corso degli anni l’istituzionalizzazione del modello ha visto di pari passo una radicalizzazione delle criticità sul piano organizzativo, educativo e di diffusione. Il tempo pieno è divenuto sinonimo di 40 ore passate a scuola, senza una reale progettualità educativa e con l’idea che ci sia più tempo per affrontare i contenuti disciplinari.
Rispetto agli anni Settanta, in cui a ogni classe a tempo pieno venivano assegnati due insegnanti, oggi si assiste sempre di più a uno spezzatino, con anche cinque o sei insegnanti per classe e una secondarizzazione della scuola primaria.
Viene da chiedersi, riprendendo le parole di Bruno Ciari, come ridar senso a un tempo scuola lungo di qualità che non rappresenti solo uno spazio più disteso per affrontare le discipline.
Tempo pieno… di che?
Pensando a una rifondazione pedagogica del tempo pieno, occorre tenere presenti alcuni aspetti imprescindibili: relazione, leggerezza dei saperi, connessioni tra discipline, spazi di personalizzazione.
- La qualità del tempo passato a scuola dev’essere garantita grazie a una relazione educativa da coltivare giorno per giorno. Il modello di tempo pieno con due insegnanti per classe con quattro ore di copresenza non è anacronistico, ma permette di coltivare legami profondi che facilitano l’apprendimento.
- Si impara anche fuori dall’aula! Avere a disposizione un tempo lungo permette di diversificare l’azione educativa, uscendo dall’aula per incontrare il territorio in termini di esperienze, persone, luoghi.
- Non si può chiudere il sapere in scatole: il tempo passato a scuola dev’essere uno spazio di costruzione collettiva della cultura, non di trasmissione unilaterale di un sapere immutabile. Connettere il linguaggio della matematica con la geografia, la storia con il sapere scientifico, l’inglese con l’educazione fisica consente a ciascuno di elaborare un proprio sguardo originale attraverso cui leggere la realtà e affrontare le sfide quotidiane.
- Il bambino è un microcosmo, diceva Comenio. Ogni alunno è una persona con potenzialità da conoscere e sviluppare. Potendo contare su un tempo lungo, perché non pensare a momenti in cui i bambini imparino a scegliere che cosa fare, impegnandosi in attività che li vedano insieme anche ad altri alunni della scuola? Si tratta di prevedere alcune ore in cui i bambini di tutta la scuola possano scegliere tra attività diverse che trasversalmente accolgano più linguaggi disciplinari, come già succede in alcune scuole che hanno deciso di progettare il tempo con creatività.
Scardinare l’equazione “tempo pieno uguale 40 ore” è qualcosa di imprescindibile per una scuola che ponga al centro della propria progettualità il bambino come persona unica e con una personalità pluriprospettica.
Valerio Ferrero
Docente di scuola primaria e dell’infanzia presso il Miur e Teacher Expert in Philosophy for Children, è attualmente dottorando di ricerca in Scienze psicologiche, antropologiche e dell’educazione presso l’Università degli Studi di Torino. Si occupa di fattori vecchi e nuovi di disuguaglianza scolastica e come contrastarli nella scuola di oggi.
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